31 ottobre 2020

Halloween

Un numero vampiro è un numero di $2n$ cifre che può essere fattorizzato in due numeri di $n$ cifre (detti "zanne"), non entrambi terminanti per zero, che contengono tutte le cifre del numero originale, in qualsiasi ordine e con la stessa molteplicità.

Il primo numero vampiro è $1260=21 \times 60$. Il successivo è $1395 = 15 \times 93$. I numeri vampiro sono infiniti, e alcuni di essi sono tabulati nella successione OEIS A014575.

24 ottobre 2020

$f(x)=1/x$ ha una discontinuità in $x=0$?

What is important is to spread confusion, not eliminate it.
Attributed to Salvador Dalì

Se si vuole innescare un flame in una pagina sui social dedicata alla Matematica, un metodo infallibile è porre la domanda nel titolo del post. Sicuro come le tasse, i commentatori si divideranno, automaticamente e all'istante, in due fazioni agguerritissime e fra loro inconciliabili:

  1. Per alcuni, $f(x)=1/x$ non ha discontinuità in nessun punto, dato che $x=0$ non fa parte del "dominio naturale" di $f$ e quindi non ha senso parlare di continuità di $f(x)$ in $x=0$ fin quando non si assegni un valore preciso a $f(0)$.
  2. Altri fanno invece notare che, in ogni caso, qualsiasi valore si assegni a $f(0)$ la funzione sarà non-continua, dato che i limiti per $x$ che tende a $0$ non sono finiti. Quindi, ha senso dire che $f(x)=1/x$ ha una "discontinuità di seconda specie" in $x=0$. Il fatto che il punto $x=0$ non sia nel dominio naturale di $f$ non è un problema, dato che basta che esso sia di accumulazione per lo stesso. 
Chiedersi chi ha ragione è un po' come chiedere se $0$ è un numero naturale, se le permutazioni si compongono da sinistra a destra o da destra a sinistra, se sulla pizza marinara va l'aglio o se sono meglio i Beatles o i Rolling Stones: in altre parole, è una questione di convenzione (e di gusti).

Sicuramente, la definizione di "continuità di una funzione in un punto $x$" richiede che la funzione sia definita in tale punto. Tuttavia, e qui sta il nocciolo della questione (che viene messo in evidenza, ad esempio, da Sandra Lucente su MaddMaths [MaddMaths17] o da "egreg" nella sua risposta a [MSE421951]), il termine "discontinuità" in Matematica non ha sempre significato (solo) "punto di non continuità" nel senso moderno.

Infatti, tale termine deriva dal concetto intuitivo (ed errato) che il grafico di una funzione continua sia composto "di un solo pezzo", per cui "avere una discontinuità"  diventava sinonimo di "il grafico in quel punto si spezza". Questa terminologia infelice è la fonte di una serie interminabile di malintesi, dato che  "discontinuità" in tal senso è più simile al concetto di "singolarità" per funzioni di variabile complessa che a quello di "punto di non continuità" per funzioni di variabile reale.

Una delle conseguenze di tale confusione è che alcuni Autori usano il termine "discontinuità" nell'accezione dei commentatori in 1., mentre altri Autori la usano nell'accezione dei commentatori in 2.

Ciò risulta in modo evidente da una rapida, e sicuramente non esaustiva, analisi delle letteratura, che  mostra come la definizione di "discontinuità" data nei manuali universitari di Analisi 1 sia ben lungi dall'essere univocamente stabilita; il lettore potrà, se lo ritiene opportuno, effettuare un'analisi simile per i manuali adottati nei Licei.
  • In Amerio il termine "discontinuità in $x_0$" è usato precisamente nell'accezione 2. L'autore specifica che il punto $x_0$ deve appartenere all'insieme $DT$ dei punti di accumulazione del dominio $T$ della funzione. Citando testualmente [A90, p131]:
    Se $T$ è l'insieme di definizione di una funzione, si dice punto di discontinuità di f(x) ogni punto $x_0 \in DT$ in cui la funzione stessa non è continua o non è definita.
  • In Cecconi-Stampacchia  il termine "discontinuità" è usato esclusivamente nell'accezione 1., quindi come "punto di non continuità" [CS74, p. 162].
  • In Pagani-Salsa il termine è usato nell'accezione 1.; tuttavia, viene osservato che l'accezione 2. è anche comune, ma secondo gli Autori [PS95, Osservazione 1.1 p. 228] essa è ammissibile
    solo se si sottintende che le funzioni in questione siano state tacitamente definite in $x_0$ in modo opportuno.
  • In Bramanti-Pagani-Salsa la trattazione è piuttosto curiosa, almeno a mio parere. A p. 117 viene detto esplicitamente che
    una funzione non continua in $c$ è detta discontinua in $c$,
    il che porta a pensare che gli Autori utilizzino l'accezione 1. Subito dopo, però, viene data la definizione di "discontinuità a salto" (quella che altri Autori chiamano "di prima specie") ma, stranamente, senza richiedere che la funzione sia definita nel punto [BPS08, Definizione 3.12 p. 117]. Ciò è reso ancora più esplicito all'inizio di p. 118, dove si dice  che
    la funzione $x/|x|$ ha un punto di discontinuità a salto in $0$, con salto $2$.
  • Giusti, nel suo bel libro [G88], è vittima nella stessa ambiguità terminologica che abbiamo analizzato sopra. A p. 150 scrive testualmente
    Si capisce meglio il concetto di continuità se si studiano brevemente i punti di discontinuità di una funzione, ossia i punti in cui una funzione non è continua.

    Sembra quindi che l'Autore voglia utilizzare il termine "discontinuità" nell'accezione 1. Tuttavia,  poco dopo (a p. 151) scrive esplicitamente che $1/x$ e $1/x^2$ hanno una discontinuità "di secondo tipo" in $0$, il che ha senso solo se si utilizza il termine "discontinuità" nell'accezione 2.

  • Leggendo Marcellini-Sbordone [MS88] sembra che gli Autori propendano per l'accezione 2. Per loro, infatti, una funzione non definita in un punto è per definizione non continua in tale punto; a p. 104 si fornisce come esempio esplicito $f(x)=\sin x/x$ in $x=0$, anche se viene immediatamente osservato che è possibile prolungare tale funzione con continuità ponendo $f(0)=1$. L'analisi delle "discontinuità" che segue  è sulla stessa linea: ad esempio, viene definita "discontinuità di seconda specie" un punto $x_0$ tale che uno dei due limiti non esista o non sia finito, senza nulla richiedere sull'esistenza di $f(x_0)$, supponendo quindi implicitamente che $x_0$ sia punto d'accumulazione per il dominio della funzione.

  • Soardi propende decisamente per l'accezione 2. Nella sezione dedicata ai punti di discontinuità [So10, p. 188] l'Autore scrive infatti testualmente
    Se $f(x)$ non è continua in $x_0$ si dice che $x_0$ è punto di discontinuità. È opportuno tuttavia ampliare la nozione di punto di discontinuità al caso in cui $f$ non sia necessariamente definita in $x_0$.
    A scanso di equivoci, alla fine della trattazione di ciascuno dei tre tipi di discontinuità, specifica 
non è richiesto che la funzione sia definita in $x_0$. 

  • De Marco utilizza il termine "discontinuità" con l'accezione 1, ma la sua classificazione è un po' diversa da quella usuale. In [DeM96, p. 301] l'Autore chiama "punto di discontinuità di prima specie" per una funzione $f \colon D \to \mathbb{R}$ un punto $c \in D$ di accumulazione per $D$ tale che i limiti per $x \to c$ di $f(x)$ esistono ma differiscono fra loro o dal valore $f(c)$. Questa definizione ingloba sia le discontinuità eliminabili che quelle di salto. Ogni altra discontinuità viene chiamata "di seconda specie".

Questi pochi esempi mostrano come ogni tentativo di dare una risposta alla domanda nel titolo del post finisce per farti addentrare in un ginepraio inestricabile di definizioni spesso fra loro contrastanti. Se devi insegnare la materia, ti chiedi giustamente: Che fare? [L70]. Anche qui, la risposta non è semplice, e probabilmente non esiste neanche una risposta "giusta". 

Personalmente, quando mi trovo a parlare dell'argomento, preferisco evitare il termine "discontinuità", fonte di confusione, e ad usare al suo posto il termine "singolarità". Prima, però, illustro le due accezioni del termine "discontinuità" che si trovano in letteratura, e quali siano a mio avviso i pro e i contro di entrambe. Al di là di ogni polemica, il modo migliore per rapportarsi ad una terminologia diffusa ma ambigua è quello di spiegare chiaramente il motivo e i rischi di tale ambiguità.

Riferimenti.

[A90] L. Amerio: Analisi Matematica con elementi di Analisi Funzionale, Volume Primo, edizione ampliata, UTET 1990

[BPS08] M. Bramanti, C. D. Pagani, S. Salsa: Analisi Matematica 1, Zanichelli 2008

[CS74] J. Cecconi, G. Stampacchia: Analisi Matematica 1, Liguori 1974

[DeM96] G. De Marco: Analisi 1, Seconda Edizione, Decibel-Zanichelli 1996 

[G88] E. Giusti: Analisi Matematica 1, Bollati Boringhieri 1988

[L70] Lenin: Che fare? Editori Riuniti, 1970.

[MaddMaths17] http://maddmaths.simai.eu/divulgazione/langolo-arguto/possibile-che-funzioni-continue-siano-discontinue-e-viceversa/

[MS88] P. Marcellini, C. Sbordone: Analisi Matematica 1, Liguori 1998

[MSE421951] https://math.stackexchange.com/questions/421951/does-a-function-have-to-be-continuous-at-a-point-to-be-defined-at-the-point

[PS95] C. D. Pagani, S. Salsa: Analisi Matematica 1, Masson 1995

[S10] P. M. Soardi: Analisi Matematica, Città Studi 2010.

18 ottobre 2020

A. I.

Computers are useless. They can only give you answers.
Attributed to Pablo Picasso (1964).

Source.
E. K. Adkins: Man And Technology - The Social And Cultural Challenges Of Modern Technology, Avalon Publishing (1983), pp. 78, 100.

14 ottobre 2020

Make the impossible possible

Una scultura realizzata a Perth, in Australia, che rappresenta il celebre Triangolo di Penrose.

Ovviamente, non è come sembra.



11 ottobre 2020

Il lamplighter group

È noto dai corsi elementari di Algebra Lineare che un sottospazio di uno spazio vettoriale di dimensione finita è a sua volta di dimensione finita. 

Un risultato analogo non vale invece per i gruppi: un sottogruppo di un gruppo finitamente generato non è necessariamente finitamente generato. Un classico controesempio è il cosiddetto lamplighter group $L$, la cui costruzione andiamo ora a descrivere.

Consideriamo innanzitutto la somma diretta infinita $$B:=\bigoplus_{\mathbb{Z}}\mathbb{Z}_2$$ i cui elementi sono successioni doppiamente infinite $$(a_i)_{i \in \mathbb{Z}}=(\ldots, a_{-1}, \, a_0, \, a_1, \ldots)$$ di elementi di $\mathbb{Z}_2=\{\bar{0}, \, \bar{1} \}$, tali che al più un numero finito di essi sia diverso da $\bar{0}$.
Lemma 1. Il gruppo $B$ non è finitamente generato. 

Dimostrazione. $B$ è abeliano e ogni suo elemento ha ordine $2$. Ma un gruppo abeliano finitamente generato e tale che ogni elemento abbia ordine finito è necessariamente finito.  $\square$

Consideriamo ora l'omomorfismo di gruppi $$\varphi \colon \mathbb{Z} \to B$$ dato dallo shift $\varphi(n)(a_i)=a_{n+i}$ per ogni $n, \, i \in \mathbb{Z}$.  Esso permette di costruire il prodotto semidiretto $$L:=B \rtimes \mathbb{Z}$$ che è un caso particolare di prodotto wreath ristretto (infatti, si ha $L= \mathbb{Z}_2 \mathrm{wr}_{\mathbb{Z}} \mathbb{Z})$ e una cui presentazione è data da $$L= \langle x_i, \, t \; | \; x_i^2=1, \; \;  [x_i, \, x_j]=1, \; \; tx_it^{-1} =x_{i+1}, \; \; i, \, j \in \mathbb{Z} \rangle $$ Qui gli $x_i$ sono i generatori di $B$ e $t$ è un generatore di $\mathbb{Z}$ in notazione moltiplicativa, mentre le relazioni di coniugio esprimono il fatto che $\varphi(1) \colon B \to B$ è l'automorfismo dato dallo shift di $1$.

La presentazione di $L$ descritta sopra ha infiniti generatori; tuttavia (e qui sta il punto cruciale)  i generatori di $B$, a parte uno di essi (diciamo $x_0$), sono superflui in quanto si ha $$t^i x_0 t^{-i}=x_i$$ Pertanto, ponendo $x:=x_0$, possiamo riscrivere la presentazione di $L$ come $$L=\langle x, \, t \; | \; x^2=1, \; \; [t^ixt^{-i}, \, t^j x t^{-j}]=1, \; \;  i, \, j \in \mathbb{Z}\rangle$$ che può essere ulteriormente semplificata nel modo seguente $$L=\langle x, \, t \; | \; x^2=1, \; \; (t^kxt^{-k}x)^2=1, \; \;  k \in \mathbb{Z}\rangle$$ Ciò mostra che $L$ è finitamente generato. Tuttavia, esso contiene come sottogruppo il gruppo $B$, che non è finitamente generato per il Lemma 1. 

Osservazione1. $L$ è finitamente generato ma non finitamente presentato. Infatti, la presentazione data ha due generatori e infinite relazioni, e si può mostrare che $L$ non ammette nessuna presentazione finita.

Osservazione 2. $B$ è normale in $L$, e ha indice infinito in esso. Infatti, è noto che un sottogruppo di indice finito di un gruppo finitamente generato è a sua volta finitamente generato.

Osservazione 3. Il nome "lamplighter group" ("gruppo del lampionaio") viene dal fatto che si può pensare agli elementi del  gruppo $B=\bigoplus \mathbb{Z}_2$ come ad successioni doppiamente infinite di lampioni, ciascuno dei quali può essere acceso ($\bar{1}$) o spento ($\bar{0}$) e tali che al più un numero finito di lampioni siano accesi insieme. Il generatore $t$ del fattore $\mathbb{Z}$ di $L=B \rtimes \mathbb{Z}$ può essere identificato col lampionaio, la cui azione fa passare da ogni lampione al successivo.


Riferimenti.
[M2012] A. Machì, Groups (Springer 2012), Chapter 4.

03 ottobre 2020

A. Square

La copertina della prima edizione di Flatland (Londra, 1884). Si può leggere il celebre sottotitolo "A romance of many dimensions, by A. Square."

Fin da subito, l'opera di Edwin Abbott suscitò reazioni contrastanti. Alcuni la lodarono come metafora del libero pensiero, che sfida i precetti della religione organizzata e della morale costituita per raggiungere nuove e più elevate forme di consapevolezza. Altri la criticarono aspramente, in quanto descriveva una società rigidamente divisa in caste, con le donne poste in fondo alla scala gerarchica.

Abbott si difese da queste accuse (in particolare, da quella di misoginia) nella prefazione alla seconda edizione, affermando che la sua voleva essere una rappresentazione satirica delle rigide convenzioni sociali e familiari insite nella società vittoriana.




Fonte: Wikipedia