30 giugno 2018

Varietà lineari a tratti: Hauptvermutung

Una varietà topologica $M$ si dice lineare a tratti (o PL = "piecewise-linear") se esiste su di essa un atlante tale che le funzioni di transizione siano funzioni lineari a tratti. Si tratta di una proprietà lievemente più forte dell'esistenza di una triangolazione.

La categoria PL delle varietà lineari a tratti sta quindi in mezzo fra quella TOP delle varietà topologiche e quella DIFF delle varietà differenziabili. È importante notare che le funzioni lineari a tratti sono di classe $C^0$ ma non $C^1$, dato che è ben noto che la categoria delle varietà $C^1$ è equivalente a DIFF (cioè, che ogni atlante di classe $C^1$ è equivalente ad uno liscio).

Inoltre, le inclusioni DIFF $\subset$ PL $\subset$ TOP sono entrambe strette.

Infatti, ricordiamo innanzitutto che ogni varietà differenziabile ammette una struttura PL (per via di un teorema di Whitehead [W40], che afferma che ogni varietà liscia è triangolabile), ma non vale il viceversa. In altre parole, vi sono varietà PL che non ammettono nessun atlante di classe $C^{\infty}$ (cioè, che non sono "allisciabili"). Il primo esempio di questo tipo venne costruito da M. Kervaire in [K60]: si tratta di una varietà PL di dimensione 10, ottenuta con una tecnica di topologia differenziale detta "plumbing" a partire dai fibrati tangenti di due 5-sfere; in suo onore, varietà di questo tipo vengono oggi chiamate varietà di Kervaire.

Inoltre, esistono varietà topologiche che non possiedono nessuna strutture PL, ed altre che ne possiedono infinite.

Storicamente, il problema della triangolabilità delle varietà topologiche è noto come "Hauptvermutung". La triangolabilità delle varietà di dimensione 2 è stata dimostrata da T. Radó nel 1920, e quella delle varietà di dimensione 3 da E. Moise nel 1950. Quindi i primi controesempi possono presentarsi solo da dimensione 4 in poi.

Oggi si sa che, per una varietà topologica $M$, l'ostruzione a possedere una struttura PL è data dalla  classe di Kirby-Siebermann $$k(M) \in H^4(M,  \, \mathbb{Z}_2).$$ Se $\dim(M) \geq 5$ e $M$ è compatta, allora esiste una struttura PL su $M$ se e solo se $k(M)=0,$ e in questo caso il numero di strutture PL differenti è parametrizzato da $H^3(M,  \, \mathbb{Z}_2)$, in particolare esse sono in numero al più finito.

In dimensione $4$ le cose sono radicalmente differenti: in tal caso la categoria PL coincide con la categoria DIFF, ed esistono $4$-varietà topologiche compatte e semplicemente connesse che possiedono infinite strutture PL distinte (S. Donaldson).

Inoltre, M. Friedman trovò nel 1982 l'esempio noto come varietà E8, una 4-varietà topologica compatta e semplicemente connessa che non solo non ammette nessuna struttura PL, ma addirittura non è neanche omeomorfa ad un complesso simpliciale. Esempi con la stessa proprietà, in ogni dimensione maggiore o uguale a $5$, sono stati costruiti più recentemente da C. Manolescu  in [Ma16].


Riferimenti:


[K60] M. Kervaire: A manifold which does not admit any differentiable structure, Comm. Math. Helv. 34 (1960), 257–270.
[Ma16 ] C. Manolescu: $\mathrm{Pin}(2)$-equivariant Seiberg–Witten Floer homology and the Triangulation Conjecture, Journal of the American Mathematical Society 29 (2016), 147 -176.
[W40] J. H. C. Whitehead: On $C^1$-ComplexesAnnals of Mathematics. Second Series. 41 (4) (1940), 809–824.

23 giugno 2018

Apologia di un matematico

A mathematician, like a painter or a poet, is a maker of patterns. If his patterns are more permanent than theirs, it is because they are made with ideas
(G. H. Hardy)

G. H. Hardy (1877-1947) fu uno dei più importanti matematici inglesi del '900, attivo soprattutto nel campo della Teoria Analitica dei Numeri. Le sue collaborazioni con J. Littlewood (1885-1977) e S. Ramanujan (1887-1920) portarono a numerosi fondamentali risultati, fra cui il celebre Metodo del Cerchio, che permise di utilizzare gli strumenti dell'Analisi Complessa e dell'Analisi Armonica allo studio del comportamento asintotico della funzione di partizione degli interi.

Hardy è considerato colui che "portò il rigore nella matematica britannica", ed il suo sodalizio scientifico con Littlewood era talmente famoso che H. Bohr arrivò ad affermare "oggi vi sono solo tre grandi matematici in Inghilterra: Hardy, Littlewood e Hardy-Littlewood".

Nel 1940, in quella che doveva essere l'ultima parte della sua vita, Hardy pubblicò A Mathematician's Apology, un breve saggio che oggi è considerato un classico dell'autobiografia scientifica.

"Apologia" qui va inteso non come "richiesta di perdono", ma piuttosto nel senso che Platone dà all'Apologia di Socrate: una spiegazione delle proprie azioni, e del perché si sia agito secondo coscienza. Al contrario di Socrate, tuttavia, Hardy era un ateo convinto, dunque le sue giustificazioni non sono rivolte a Dio, ma solo agli uomini.

Vi furono almeno due elementi che spinsero il matematico inglese a scrivere l'Apologia. In primo luogo, all'età di 62 anni e dopo un attacco di cuore, Hardy sentiva di avere perso la propria vena creativa (nel corso di tutta la vita affermò che la ricerca matematica era un'attività per gente giovane) e infatti, nella prefazione alla ristampa del 1967, C. P. Snow definisce l'opera come "a passionate lament for creative powers that used to be and that will never come again". In secondo luogo, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e gli orrori che ne derivarono, spinsero Hardy (che fu sempre un pacifista convinto) a ribadire che lo scopo dei matematici deve essere quello di ricercare la conoscenza come fine a se stessa, e non di applicarla agli strumenti di morte dell'industria bellica.

Tutta l'Apologia è pervasa dal senso del Bello, dato che Hardy considerava la matematica una forma d'arte al pari della musica, della pittura o della scultura: addirittura, per convincere il lettore di questo fatto, ad un certo punto include la dimostrazione data da Euclide dell'infinità dei numeri primi, e quella dell'irrazionalità di $\sqrt{2}$. Due esempi "old but gold", definiti "un banco di prova: se il lettore è incapace di apprezzarli, è improbabile che sappia apprezzare qualcosa della Matematica".

Un capitolo importante dell'Apologia è la descrizione del rapporto dell'autore con il genio autodidatta Ramanujan (che meriterebbe un post a parte): Hardy, persona fredda e distaccata, definito da Littlewood "un omosessuale non praticante", lo chiama "l'unico incidente romantico della mia vita".

Alcune delle affermazioni fatte da Hardy possono apparire ingenue col senno di poi: ad esempio, quella che non ci possano essere contributi importanti dati alla Matematica da gente oltre i 50 anni (adesso che la materia non è più un'occupazione d'élite, non è raro trovare importanti teoremi dimostrati da matematici sessantenni o anche più anziani) e soprattutto quella che la Teoria dei Numeri, la regina della Matematica secondo Gauss, non abbia applicazioni pratiche: per ironia della sorte, oggi la Teoria dei Numeri è fondamentale per l'industria militare e la cybersecurity, a causa dei suoi profondi legami con la Teoria dei Codici e la Crittografia.

Idiosincrasie e affermazioni datate a parte, l'Apologia di un Matematico è comunque un documento sincero e commovente, che rivela il grande amore dell'autore per il suo lavoro, e anche la sua umiltà di fondo, che traspare in una delle frasi conclusive dell'opera:

"Ancor oggi nei momenti di depressione, quando mi trovo a dover ascoltare gente pedante e presuntuosa, mi dico: Beh, io ho fatto qualcosa che voi non sareste mai stati capaci di fare: ho collaborato con Littlewood e Ramanujan, su un piano quasi di parità".

G. H. Hardy (fonte Wikipedia)

10 giugno 2018

Il teorema di invarianza del dominio

Se $m$ ed $n$ sono due interi positivi, allora non è difficile dimostrare che $\mathbb{R}^m$ e $\mathbb{R}^n$ sono diffeomorfi se e solo se $m=n$. Infatti, un diffeomorfismo induce un isomorfismo lineare fra gli spazi tangenti, e due spazi vettoriali di dimensione finita sono isomorfi se e solo se hanno la stessa dimensione.

La questione diventa molto più sottile quando si passa dalla categoria differenziale a quella topologica. Chiaramente, $\mathbb{R}$ non è omeomorfo a $\mathbb{R}^n$ se $n>1$, per il semplice fatto che un punto sconnette $\mathbb{R}$ ma non $\mathbb{R}^n$; ma cosa si può dire nel caso generale?

Non si può sperare di adattare l'argomento precedente utilizzando sottospazi lineari di dimensione maggiore di zero. Infatti, è senz'altro vero (ad esempio) che una retta sconnette $\mathbb{R}^2$ ma non $\mathbb{R}^n$ con $n>2$; tuttavia, l'immagine di una retta tramite un'applicazione di classe $C^0$ ma non $C^1$ può essere un oggetto ben diverso da una retta, addirittura una curva di tipo Peano che riempie tutto lo spazio. Di fatto, la presenza di tali applicazioni continue "patologiche" è l'ostacolo essenziale ad una trattazione "elementare" del problema.

La questione venne risolta dal matematico olandese L.E.J. Brouwer, che, nel 1912, pubblicò [1] la prima dimostrazione completa di quello è oggi conosciuto come
Teorema di invarianza del dominio. Gli spazi topologici $\mathbb{R}^m$ e $\mathbb{R}^n$ sono omeomorfi se e solo se $m=n$.
La dimostrazione di Brouwer fa uso del teorema di punto fisso che oggi porta il suo nome; invece, nei moderni libri di testo (vedi ad esempio [2, Theorem 2.26]), si trova in genere la seguente dimostrazione che fa uso dell'omologia singolare.
Dimostrazione. Se $\mathbb{R}^m$ e $\mathbb{R}^n$ sono omeomorfi, allora lo stesso vale per gli spazi $\mathbb{R}^m$ meno un punto e $\mathbb{R}^n$ meno un punto, che si retraggono rispettivamente su $S^{m-1}$ e $S^{n-1}.$ Siccome la sfera $S^k$ ha omologia non banale solo in gradi $0$ e $k$, e i gruppi di omologia sono invarianti omotopici, segue $m-1=n-1$, cioè $m=n$.
$\square$
Si possono dare dimostrazioni analoghe usando invarianti topologici, diversi dall'omologia, che distinguano sfere di dimensioni differenti: ad esempio la coomologia (il cui comportamento sulle sfere, via dualità di Poincaré, è analogo a quello dell'omologia) o i gruppi di omotopia superiore (per i quali $\pi_i(S^k)=0$ se $i <k$, mentre $\pi_k(S^k)=\mathbb{Z}$).

A volte, in letteratura, con Teorema di Invarianza del Dominio si indica il seguente risultato, da cui quello enunciato sopra scaturisce come semplice conseguenza (vedi [3]):
Teorema. Se $U$ è un aperto non vuoto di $\mathbb{R}^n$ e $f \colon U \to \mathbb{R}^n$ è una mappa continua e iniettiva, allora $V=f(U)$ è aperto e la restrizione $f \colon U \to V$ è un omeomorfismo.
Dal punto di vista storico, questa è la versione da cui il risultato prende il suo nome, dato che, classicamente, il termine "dominio" indicava un aperto connesso di $\mathbb{R}^n$. Una dimostrazione, basata su tecniche omologiche standard, può essere trovata in [2, Theorem 2B.3].

Riferimenti:

[1] L. E. J. Brouwer: Beweis der Invarianz des n-dimensionalen Gebiets, Mathematische Annalen 71 (1912), p. 305–315; vedi anche Mathematische Annalen 72 (1912), p. 55–56.
[2] A. Hatcher: Algebraic Topology, Cambridge University Press (2009).
[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Invariance_of_domain

27 maggio 2018

Curve di ampiezza costante

Ricordiamo che, ata una curva piana chiusa $C$, regolare a tratti e che delimiti una regione convessa, una "retta di supporto" a $C$ è una retta che ha almeno un punto in comune con $C$ e nessun punto in comune con il suo interno.
Definizione.Una curva di ampiezza costante è una curva piana convessa tale che la distanza fra due coppie qualsiasi di rette di supporto parallele è indipendente dalle rette scelte. Tale distanza è appunto chiamata l'ampiezza della curva.
Intuitivamente, una curva di ampiezza costante è quindi una curva tale che può "essere fatta rotolare" fra due rette parallele senza alterarne la distanza. Un esempio immediato è la circonferenza: in tal caso vi è una sola retta di supporto in ogni punto (la retta tangente) e due rette di supporto sono parallele solo se i corrispondenti punti sono antipodali; pertanto la circonferenza ha ampiezza costante, pari al diametro. Questo è uno dei motivi per cui le ruote hanno forma circolare: se la loro forma fosse una curva di ampiezza non costante (ad esempio, un'ellisse) una piattaforma che si spostasse su di esse oscillerebbe su e giù durante il movimento.

Esistono curve di ampiezza costante diverse dalla circonferenza? Sorprendentemente, la risposta è affermativa, e l'esempio più famoso è dato dal cosiddetto triangolo di Rouleaux, così chiamato in onore del matematico e ingegnere F. Rouleaux (1829-1905), che insegnò alla Reale Scuola tecnica Superiore di Berlino. Esso si ottiene partendo da un triangolo equilatero e centrando col compasso in ciascuno dei vertici in modo da costruire tre archi di circonferenza che congiungono gli altri due vertici.

Il Triangolo di Rouleaux (il bordo della regione in giallo) è una curva ad ampiezza costante.

Come la circonferenza e ogni altra curva di ampiezza costante, il Triangolo di Rouleaux ruota esattamente all'interno di un quadrato (di lato pari all'ampiezza), mantenendosi in contatto con tutti e quattro i vertici durante la rotazione. Questa proprietà è stata sfruttata in ingegneria in modo sorprendente: nel 1914, H. J. Watts brevettò una punta per trapano, basata sul triangolo di Rouleaux, in grado di produrre fori quadrati!

Il trangolo di Rouleaux possiede molte altre interessanti proprietà. Una delle più importanti è che essa è la curva di ampiezza costante che ha la minima area per un'ampiezza data (questo è noto come teorema di Blaschke-Lebesgue); si noti che la diseguaglianza isoperimetrica implica che la curva di ampiezza costante che massimizza l'area è invece la circonferenza.

Il Triangolo di Rouleaux presenta tre punti angolosi nei vertici del triangolo equilatero di partenza; tali punti possono essere tuttavia "allisciati", ottendendo una curva di ampiezza costante e di classe $C^1$. Inoltre, è possibile costruire "poligoni di Rouleaux" partendo da poligoni regolari con più di tre lati: si ottengono in tal modo curve di ampiezza costante il cui gruppo di simmetria è il gruppo diedrale del poligono di partenza. Curiosamente, le monete britanniche da 20p e 50p sono eptagoni di Rouleaux.

Ancora più sorprendente del triangolo di Rouleaux è l'esistenza di curve di ampiezza costante asimmetriche. Una loro costruzione è spiegata nel bell'articolo di M. Gardner [Gard]. Gardner nota anche, opportunamente, che l'esistenza di simili curve impedisce che si possa verificare la circolarità della chiglia di un natante (ad esempio, di un sottomarino) controllando esclusivamente l'ampiezza in ogni suo punto: una chiglia potrebbe essere infatti mostruosamante sbilenca e superare tuttavia tale controllo. Per questo motivo, il controllo di circolarità viene effettuato applicando opportuni profili sagomati.

Esistono anche curve di ampiezza costante algebriche, cioè definite da un'equazione polinomiale della forma $f(x, \, y)=0$. Un esempio è presentato in [Rab] e la corrispondente equazione (di grado $8$) può essere trovata nella pagina Wikipedia dedicata all'argomento.


Riferimenti:

[Gard] M. Gardner: Curve di Ampiezza Costante, in Enigmi e Giochi Matematici, Vol. 4
[Rab] S. Rabinowitz: A Polynomial Curve of Constant Width, Missouri Journal of Mathematical Sciences 9 (1997), 23–27.

20 maggio 2018

Il teorema dell'Esagramma Mistico di Pascal

Il seguente notevole risultato venne scoperto nel 1639 dall'allora sedicenne matematico e filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662):
Teorema. Si considerino nel piano proiettivo una conica $C$ e un esagono $X$ i cui vertici giacciono su $C$. Allora le tre coppie di rette che individuano lati opposti di $X$ si incontrano in tre punti che giacciono su una retta, detta la "retta di Pascal" dell'esagono $X$.
Esagono inscritto in una conica. La retta di Pascal è quella tratteggiata

Dati sei punti $\{P_1, \ldots, P_6\}$ non ordinati su una conica, essi possono essere congiunti per formare un esagono in $60$ modi distinti, e di conseguenza esistono $60$ rette di Pascal; l'insieme di tali rette è detto l'Esagramma Mistico relativo a $\{P_1, \ldots, P_6\}$, e per tale motivo il teorema di Pascal è anche detto teorema dell'Esagramma Mistico.

Il teorema di Pascal può essere visto come una generalizzazione del classico teorema di Pappo: infatti, quest'ultimo si ottiene nel caso limite in cui la conica $C$ degenera nell'unione $L_1+L_2$ di due rette. Si noti inoltre che è possibile dare un enunciato del teorema di Pascal anche nel piano affine, trattando opportunamente i casi in cui una o più coppie di rette diventino parallele; ad esempio, se due coppie di lati opposti definiscono rette parallele, allora lo stesso vale per tutte e tre le coppie di lati opposti, e non esiste nessuna retta di Pascal affine (in tal caso la retta di Pascal è la retta all'infinito).

L'inverso del teorema di Pascal è detto teorema di Braikenridge e Maclaurin:
Se le tre coppie di rette definite dai lati opposti di un esagono $X$ si incontrano in tre punti allineati, allora i vertici $\{P_1, \ldots, P_6\}$ di $X$ giacciono su una conica $C$ (che può essere degenere). Variando il sesto punto $P_6$, ciò permette di dare una costruzione proiettiva della conica determinata dai cinque punti $\{P_1, \ldots, P_5\}$.
Esistono numerose dimostrazioni del teorema di Pascal, sia sintetiche che analitiche. Qui ci limitiamo ad esporne una che si trova spesso nei testi introduttivi di Geometria Algebrica.
Dimostrazione. Siano $P_1, \,  P_2, \ldots, P_6$ i sei vertici ordinati dell'esagono $X$, e siano $l_1$,  $l_2$, $l_3$ le rette dei lati $P_1P_2$, $P_3P_4$, $P_5P_6$ e $m_1$, $m_2$, $m_3$ le rette dei lati $P_2P_3$, $P_4P_5$, $P_6P_1$. Sia $f$ la forma cubica $l_1l_2l_3$ e $g$ la forma cubica $m_1m_2m_3$, e si scelga uno scalare $\lambda$ tale che la forma cubica $f+\lambda g$ si annulli su un ulteriore punto $P$ di $C$ (che per semplicità consideriamo irriducibile, ma la dimostrazione può essere adattata anche nel caso di $C$ riducibile). Allora la cubica piana $D$ definita da $f+\lambda g=0$ e la conica $C$ hanno almeno sette punti in comune, dunque per il teorema di Bézout esse devono avere in comune una intera componente. Ciò vuol dire che $D$ si spezza nell'unione della conica $C$ e di una retta $L$, che risulta essere la retta di Pascal di $X$.
$\square$
Il teorema di Pascal può essere anche ottenuto come una conseguenza del teorema di Cayley-Bacharach per le cubiche piane: si veda il corrispondente articolo Wikipedia per ulteriori dettagli sull'argomento.

05 maggio 2018

L'algoritmo di Strassen

Quanto è dispendioso, dal punto di vista computazionale, moltiplicare due matrici $n \times n$?
La risposta che viene subito in mente è che servono al più $O(n^3)$ operazioni, dato che l'algoritmo standard (insegnato nei corsi base di Algebra Lineare) richiede $n \times n \times n=n^3$ moltiplicazioni e possiamo trascurare il contributo dato delle addizioni, computazionalmente irrilevante.

Nel 1969 V. Strassen, mentre cercava di dimostrare che l'algoritmo standard è ottimale, fece l'inaspettata scoperta che è possibile moltiplicare due matrici $2 \times 2$ utilizzando solo sette moltiplicazioni invece di otto. In suo onore, questo metodo di moltiplicazione matriciale è oggi chiamato algoritmo di Strassen.


V. Strassen nel 1979 (fonte Wikipedia)

L'algoritmo di Strassen può essere generalizzato a matrici $n \times n$, e permette di moltiplicare due tali matrici utilizzando $O(n^{\log_2(7)+o(1)}) = O(n^{2,8074})$ operazioni, invece delle $O(n^3)$ richieste dall'algoritmo standard. Con l'architettura dei moderni processori, implementare l'algoritmo di Strassen invece di quello usuale permette un guadagno in efficienza di circa il 20%, almeno per quanto riguarda matrici non strutturate e di grossa taglia ($n>2000$).

Essendo la moltiplicazione di matrici uno strumento centrale in ogni branca dell'Analisi Numerica, la scoperta di nuovi algoritmi di bassa complessità computazionale ha evidentemente un impatto drammatico sulla disciplina. Infatti, l'algoritmo di Strassen inaugurò un nuovo settore di ricerca noto come Fast Matrix Multiplication.

Al momento, uno degli algoritmi più veloci è quello di Coppersmith–Winograd, che ha una complessità computazionale pari a $O(n^{2,375477})$. Esistono anche algoritmi asintoticamente più efficienti, ma in pratica essi sono raramente implementati a causa delle enormi costanti che compaiono nell'espressione esplicita del tempo di esecuzione richiesto [2].

Notiamo che, in ogni caso, conoscere una matrice $n \times n$ richiede la conoscenza di tutti i suoi $n^2$ elementi, quindi la complessità computazionale di un'operazione binaria fra matrici deve essere almeno $O(n^2)$. Una sorprendente congettura (al momento non dimostrata) è che per ogni numero naturale $n$ e per ogni numero reale $\epsilon >0$ esiste un algoritmo capace di moltiplicare due matrici $n \times n$ con complessità computazionale $O(n^{2+ \epsilon})$. In altre parole, almeno asintoticamente, moltiplicare due matrici non dovrebbe essere più dispendioso che sommarle.

L'algoritmo di Strassen ha una moderna interpretazione nell'ambito della Geometria Algebrica e della Teoria delle Rappresentazioni. Le tecniche utilizzate hanno la loro origine nei lavori della scuola italiana sulle Varietà delle Secanti (inizio '900), si veda [1] per una trattazione sistematica dell'argomento.


Riferimenti:

[1] J. M. Landsberg: Geometry and Complexity Theory, Cambridge Studies in Advanced Mathematics 169, Cambridge University Press 2017.
[2] S. Robinson: Toward an Optimal Algorithm for Matrix Multiplication, SIAM News, 38 (9), 2005.


25 aprile 2018

Il gioco del 15

Tutti noi da bambini abbiamo giocato a quello che viene comunemente chiamato il gioco del 15. Si tratta di una cornice di legno o plastica di forma quadrata, nella quale vi sono $15$ blocchi quadrati uguali (numerati da $1$ a $15$) che possono scorrere in alto, in basso, a destra e a sinistra utilizzando lo spazio fornito dal quadrato mancante. Lo scopo del gioco è partire da una configurazione in cui i blocchi sono disordinati e arrivare alla configurazione di partenza in cui essi sono numerati consecutivamente e lo spazio vuoto è in basso a destra.

Le origini del rompicapo non sono completamente chiare. Sebbene l’enigmista Sam Loyd (1841-1911) ne reclamò spesso la paternità, sembra che sia stato in realtà inventato da un certo Noyes Palmer Chapman a New York nel 1874. Esso divenne estremamente popolare in America ed Europa a partire dal 1880.

Nel 1889 Loyd offrì un premio di 1000 dollari a chiunque fosse stato in grado di risolvere la configurazione in cui tutti i numeri sono al loro posto, tranne il $14$ e il $15$ che sono scambiati fra loro.

In realtà Loyd era sicuro di non dover sborsare nulla, dato che nel 1879 Johnson e Story avevano completato l’analisi matematica del gioco, scoprendo che un invariante completo che distingue le configurazioni ammissibili da quelle non ammissibili è costituito dalla parità della corrispondente permutazione e dalla taxicab distance (numero di righe più numero di colonne) del quadrato vuoto dal quadrato in basso a destra. Questo segue dal fatto che ogni mossa effettuata cambia contemporaneamente sia la parità della configurazione che la taxicab distance.

Di conseguenza, se lo spazio vuoto si trova in basso a destra, una configurazione è ammissibile se e solo se essa corrisponde ad una permutazione pari di $\{1, \ldots,15\}$. In particolare, la configurazione proposta da Loyd non è ammissibile, dato che corrisponde alla trasposizione $(14 \; 15)$, che è una permutazione dispari. Questo è un esempio tipico in cui un semplice controllo di parità permette di risolvere elegantemente un problema che sembra a prima vista intrattabile senza l'uso della forza bruta (enumerazione di tutte le configurazioni).

La configurazione impossibile di Sam Loyd

Esistono anche versioni del rompicapo con più di $15$ tasselli, e in generale ha senso chiedersi quale sia il massimo numero di mosse necessarie per risolvere una configurazione nel caso con $n^2-1$ tasselli. Al crescere di n questo è un problema NP-difficile.

Nel caso del gioco del $15$, il massimo numero di mosse necessarie è $80$ (vi sono esattamente $17$ configurazioni che richiedono $80$ mosse). Per il gioco con $24$ tasselli, si sa che il numero massimo di mosse è compreso fra $152$ e $208$. Per $35$ o più tasselli, limitare il numero massimo di mosse necessarie è al momento un problema aperto.


Riferimenti:

A. F. Archer: A modern treatment of the 15 puzzle, The American Mathematical Monthly 106 (1999), 793–799.

J. J. Rotman: Advanced Modern Algebra (Second Edition), Chapter I. Graduate Studies in Mathematics 114, American Mathematical Society (2010).

07 aprile 2018

Gundlagenstreit, parte II. Frosch-Mäuse Krieg

Non intendo prendere posizione in questa guerra fra rane e topi
A. Einstein (lettera a M. Born, 1928)

Il 30 ottobre 1928, C. Carathéodory rese visita a Brouwer nella sua casa a Laren, nei pressi di Amsterdam, e gli consegnò una lettera scritta da Hilbert in persona nelle quale gli veniva comunicata la sua estromissione dall'editorial board dei Mathematische Annalen, sulla base di "incompatibilità riguardo a questioni fondamentali".

Brouwer, individuo nervoso ed emotivamente instabile, non era tipo da lasciar correre quella che considerava una intollerabile offesa alla sua persona e alla sua professionalità. Dopo essersi congedato in maniera turbolenta da Carathéodory, cominciò a preparare la contromossa.

I Mathematische Annalen erano all'epoca già pubblicati da Springer, che li aveva rilevati dall'editore originale Teubner, e il frontespizio della rivista elencava due tipi di redattori: i redattori capo ("Herausgeber") D. Hilbert, A. Einstein, O. Blumenthal, C. Carathéodory e i collaboratori ("Mitarbeiter") L. Bieberbach, H. Bohr, L. E. J. Brouwer, R. Courant, W. v. Dyck, O. Hölder, T. von Karman, A. Sommerfeld. Il contratto stipulato con la casa editrice non spiegava in dettaglio la distinzione fra i due tipi di redattori, nè chiariva se un redattore capo potesse arrogarsi il diritto di licenziare un collaboratore, per cui Brouwer minacciò di portare la contesa in tribunale.

Hilbert aveva messo tutto il peso del suo prestigio e della sua autorità, che erano immensi, nella crociata contro Brouwer. Quest'ultima non era originata soltanto dalla disputa sui fondamenti, ma nasceva anche da profonde differenze personali e politiche fra i due. All'inizio le loro relazioni erano amichevoli, e Hilbert rispettava i contributi matematici di Brouwer a tal punto da offrirgli una cattedra a Gottinga (che Brouwer non accettò). Successivamente, tuttavia, Brouwer (pur essendo olandese) appoggiò le tesi del nazionalismo germanico, e giunse al punto di criticare aspramente la partecipazione della delegazione dei matematici tedeschi, guidata da Hilbert, al congresso di Bologna del 1928.

Ad Hilbert, per il quale nazionalismi e politica non dovevano avere nulla a che fare con la scienza, questo tipo di atteggiamento risultava semplicemente odioso. Inoltre, Hilbert era all'epoca malato di anemia perniciosa, e temeva che Brouwer potesse approfittare della sua debolezza fisica per impadronirsi della direzione degli Annalen. Sembra invece senza fondamento l'accusa (citata ad esempio in [R70]) secondo cui Brouwer voleva essere referee esclusivo per i lavori dei matematici olandesi spediti alla rivista, che teneva poi per anni sulla scrivania prima di formulare un giudizio.

Il maggiore alleato di Brouwer nel comitato editoriale era Bieberbach, che già molto prima dell'avvento al potere dei nazisti aveva manifestato le sue ferventi posizioni nazionaliste; ma anche Blumenthal e Carathéodory, per quanto venerassero Hilbert e non volessero contrastarlo, erano legati da sentimenti di amicizia verso Brouwer, e desideravano una soluzione della vicenda che concedesse a quest'ultimo l'onore delle armi. Essi arrivarono al punto di consigliare a Brouwer di presentare volontariamente le sue dimissioni in modo da evitare lo scandalo dell'estromissione, ma il matematico olandese fu irremovibile e ribadì che, se necessario, Hilbert e i suoi fedelissimi avrebbero dovuto rispondere al giudice delle loro azioni.

L'ago della bilancia nella contesa era Einstein: il suo prestigio scientifico e i suoi standard morali erano tali che chiunque l'avesse avuto dalla sua parte sarebbe stato quasi sicuro di vincere la partita. Nelle sue lettere private a Hilbert, Einstein afferma che Brouwer "...è, con il dovuto rispetto per la sua mente di prim'ordine, uno psicopatico" e che, dunque, "sarebbe meglio lasciarlo libero di fare il giullare", definendone l'estromissione dagli Annalen "un procedimento che non posso nè approvare nè giustificare". Pertanto, Einstein era deciso a mantenere nella faccenda la più ferma neutralità, non volendo mischiarsi in quella che, con malcelato disprezzo, chiamava "una guerra fra rane e topi" (Frosch-Mäuse Krieg).

L'impasse venne infine superata con uno stratagemma suggerito da Carathéodory: visto che Brouwer non intendeva dimettersi, e che non era chiaro se potesse essere legalmente licenziato, la soluzione migliore era sciogliere l'intero comitato editoriale e costituirne uno nuovo. La cosa era possibile da contratto, essendo giunti al Volume 100 della rivista; infatti, il Volume 101 mostra un nuovo frontespizio, nel quale compaiono solo tre redattori: D. Hilbert, O. Blumenthal e E. Hecke. Per confrontare i frontespizi dei volumi 100 e 101, si guardino i link alle rispettive versioni digitalizzate [MathAnn100] e [MathAnn101].

Apparentemente, Brouwer reagì a questa soluzione di compromesso con una certa mitezza. Per un po' continuò a lamentarsi, poi capì che la guerra era finita e che erano andati tutti a casa, e nel 1935 fondò una nuova rivista, Compositio Mathematica, ancora oggi attiva e prestigiosa. Sarebbe morto solo nel 1966, ma la sua carriera scientifica era terminata: il rinnovamento del comitato editoriale dei Mathematische Annalen sancì di fatto la fine della Grundlagenstreit.

Riferimenti:

[MathAnn100] https://gdz.sub.uni-goettingen.de/id/PPN235181684_0100
[MathAnn101] https://gdz.sub.uni-goettingen.de/id/PPN235181684_0101
[vanDalen2011] D. van Dalen: The Selected Correspondence of L.E.J. Brouwer, Springer 2011
[vanDalen2013] D. van Dalen: L.E.J. Brouwer – Topologist, Intuitionist, Philosopher, Springer 2013
[R70] C. Reid: Hilbert, Springer 1970.

Nota: Il testo [vanDalen2013] è una completa biografia di L. E. J. Brouwer, mentre [vanDalen2011] è una raccolta della sua corrispondenza privata e scientifica.

31 marzo 2018

Grundlagenstreit, parte I. Formalismo e intuizionismo.

Nessuno potrà cacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi
(D. Hilbert)

Nel 1899, D. Hilbert aveva pubblicato il suo fortunato libro sui fondamenti della Geometria [H99]. In esso, oltre a dare un risistemazione logica al contenuto degli Elementi di Euclide che ne correggeva le imprecisioni, egli presentava la sua visione della materia, che poteva essere racchiusa in una parola: formalismo.

Ogni teoria può essere applicata a infiniti sistemi di enti fondamentali”, spiegava Hilbert illustrando il carattere assiomatico della nuova matematica. Per la geometria usava una battuta fortunata: “Invece di punti, rette, piani dobbiamo ugualmente poter dire tavoli, sedie, boccali di birra[L16]. In altre parole, e in aperto contrasto con la visione platonista della disciplina, ciò che definisce una teoria non è l'"essenza" degli oggetti matematici, ma solo gli assiomi che essi soddisfano.

L'impostazione filosofica di Hilbert era ben chiara fin dai suoi primi lavori sulla teoria degli invarianti (1888), nei quali aveva dimostrato l'esistenza di un sistema finito di generatori per l'anello degli invarianti delle forme $n$-arie in un qualsiasi numero di variabili per mezzo di un procedimento puramente esistenziale e non costruttivo, che aveva incontrato (almeno all'inizio) l'opposizione dei matematici più tradizionalisti come P. Gordan e L. Kronecker. Quest'ultimo era anche un acerrimo avversario della teoria degli insiemi di Cantor e un propugnatore di una filosofia costruttivista, opposta a quella formalista di Hilbert, che era sintetizzata dalla sua famosa frase "Dio ha creato i numeri naturali, tutto il resto è opera dell'uomo". Per Kronecker, la dimostrazione per assurdo con cui Cantor aveva dimostrato che $\mathbb{R}$ non è equipotente a $\mathbb{N}$ era pura eresia.

Kronecker morì nel 1891, dunque il suo ruolo diretto nelle vicende che seguono fu marginale; tuttavia, le sua posizioni vennero adottate e sistematizzate dalla scuola intuizionista, il cui fondatore e principale apostolo fu il famoso matematico olandese L. E. J. Brouwer (1881-1966).


L.E.J. Brouwer
Giovanissimo, Brouwer aveva ottenuto fama internazionale per i suoi profondi risultati in Topologia, fra i quali il Teorema di Punto Fisso che oggi porta il suo nome, il Teorema di Invarianza della Dimensione e quello di Invarianza del Grado Topologico, che gli avevano permesso a soli 31 anni di essere eletto membro della Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences.

Brouwer raccolse il testimone di Kronecker e, con la sua filosofia intuizionista, si oppose fermamente al formalismo di Hilbert e dei suoi collaboratori P. Bernays, W. Ackermann e J. von Neumann. Semplificando al massimo, si può dire che l'intuizionismo si opponeva all'uso del principio del terzo escluso in logica ("non è possibile che due proposizioni contraddittorie siano entrambe non vere") in ogni ragionamento che coinvolgesse insiemi infiniti. In particolare, la scuola intuizionista considerava non valide le dimostrazioni non costruttive che sfruttavano la tecnica per assurdo, come ad esempio il procedimento diagonale di Cantor e la dimostrazione di Hilbert del suo Teorema della Base.

Come ci si può aspettare, le posizioni filosofiche di Brouwer vennero accolte con irritazione da Hilbert e dalla sua scuola (a parte H. Weyl, che ne fu invece affascinato, con sdegno del suo maestro). Hilbert affermò con veemenza che "impedire ad un matematico di usare il principio del terzo escluso è come impedire ad un pugile di usare i pugni", e che l'intuizionismo rischiava di privare la matematica di molti dei suoi risultati più importanti e di farla precipitare nella barbarie.

Un aneddoto famoso narra di Brouwer che, invitato a tenere un seminario a Gottinga, affermò (per dare un esempio delle posizioni intuizioniste) che non si può sapere se esiste una stringa di dieci $9$ consecutivi nello sviluppo decimale di pi greco, finché tale stringa non venga effettivamente trovata mediante il calcolo dello sviluppo stesso. Qualcuno del giro di Hilbert obiettò "Magari noi non lo possiamo sapere, ma Dio si!", al che Brouwer replicò seccamente "Non dispongo di una linea diretta con Dio" [R70].

Sia Hilbert che Brouwer avevano una forte e carismatica personalità, ed entrambi erano sinceramente convinti che dalla vittoria della loro posizione dipendessero il destino e la salvezza della Matematica. La guerra esplose nel 1928, quando Hilbert portò il conflitto sul piano personale, decidendo che le loro differenze erano tali che non potevano più lavorare insieme. Pertanto si adoperò per estromettere Brouwer dall'Editorial Board dei Mathematische Annalen, di cui lui era Managing Editor. Era il culmine della cosiddetta Grundlagenstreit, la "disputa sui fondamenti" [continua].

Riferimenti:

[H99] D. Hilbert: Grundlagen der Geometrie (1899)
[L16] G. Lolli: Tavoli, sedie, boccali di birra (David Hilbert e la matematica del '900), Cortina editore (2016).
[R70] C. Reid: Hilbert, Springer (1970)

20 marzo 2018

Il teorema dei Quattro Colori

Immaginiamo di avere una mappa piana costituita da un numero finito di regioni. Quanti colori sono al massimo necessari per colorarla in modo che due regioni adiacenti (cioè, con un confine in comune) non abbiano lo stesso colore?

Non è difficile costruire una mappa che necessita di quattro colori: si pensi ad una mappa costituita da un cerchio centrale e una corona circolare divisa in tre parti uguali intorno ad esso, come nella figura sotto: 


Una mappa che necessita di quattro colori (a sinistra) e il corrispondente grafo duale (a destra)

Sorge dunque naturale il seguente
Problema dei quattro colori. E' sempre possibile colorare una mappa piana con quattro colori, in modo che due regioni adiacenti abbiano colore differente? Oppure esiste una mappa che necessita di almeno $5$ colori? Equivalentemente, è vero che il numero cromatico del grafo duale di una mappa piana è sempre minore o uguale a $4$?
Si potrebbe pensare che l'origine del problema risalga allo studio della cartografia, ma in realtà le carte geografiche che necessitano di quattro colori sono piuttosto rare (tre colori bastano quasi sempre), e non si è trovata traccia di esso in nessun libro antico sull'argomento. L'origine del Problema dei Quattro Colori sembra in realtà risalire a F. Guthrie, uno studente ad Edimburgo che lo enunciò nel 1852. Guthrie ne parlò al suo insegnante A. De Morgan, il quale ne scrisse a sua volta come segue:

"A student of mine [Guthrie] asked me to day to give him a reason for a fact which I did not know was a fact—and do not yet. He says that if a figure be any how divided and the compartments differently colored so that figures with any portion of common boundary line are differently colored—four colors may be wanted but not more—the following is his case in which four colors are wanted. Query cannot a necessity for five or more be invented…"

Nel 1879, A. Kempe pubblicò una dimostrazione del Teorema dei Quattro Colori [K1879]. L'argomento di Kempe venne ritenuto corretto fino al 1890, quando P. J. Heawood scoprì al suo interno un errore fatale. I tentativi di Heawood di riparare la dimostrazione di Kempe non ebbero successo, tuttavia egli riuscì ad adattarne le tecniche per far vedere che cinque colori sono sempre sufficienti [H1890].

Dopodiché, molti matematici famosi si cimentarono nella dimostrazione del Teorema dei Quattro Colori, ma tutti i loro tentativi furono votati al fallimento. Nella sua biografia di D. Hilbert, C. Reid narra di H. Minkowski che (in un raro moto di arroganza) sostenne durante il suo corso di topologia a Goettingen che per un matematico di prim'ordine come lui ci sarebbe voluto ben poco per produrre una dimostrazione, salvo ritrattare poche settimane dopo spiegando che il suo argomento era fallace e che "il Cielo aveva punito la sua boria". Analogamente, nella sua autobiografia "Ex-prodigy", il pioniere della cibernetica N. Wiener descrive il suo sgomento nel vedere la dimostrazione da lui fornita "sbriciolarsi davanti ai suoi occhi" [Gard3].

La cosa era resa ancora più frustrante dal fatto che, paradossalmente, si conosceva la risposta per mappe disegnate per superfici in apparenza più complicate del piano, come il toro (dove sette colori sono necessari e sufficienti per colorare ogni mappa), la bottiglia di Klein, il nastro di Moebius o il piano proiettivo (dove sei colori sono necessari e sufficienti).

La dimostrazione del Teorema dei Quattro Colori arrivò nel 1976, ad opera di K. Appell e W. Haken [AH77]. Oltre che per il risultato in sé, la dimostrazione di Appell e Haken è storicamente importante in quanto si tratta del primo enunciato di rilievo dimostrato con l'ausilio del computer. La strategia della prova, infatti, consiste dapprima in un lungo e difficile procedimento di riduzione del problema originario ad un problema finito, che coinvolge $1936$ mappe. Tali mappe vengono poi analizzate una per una con l'aiuto del calcolatore, facendo vedere che ognuna di esse può essere colorata con quattro colori e deducendo da ciò che ogni mappa piana ha la stessa proprietà.

Siccome era impossibile verificare a mano i calcoli di Appell e Haken, molti matematici avanzarono dubbi sulla validità del metodo usato, o per lo meno lo trovarono insoddisfacente dal punto di vista epistemologico. Addirittura, il New York Times rifiutò di pubblicare un articolo sulla dimostrazione, temendo che potesse essere sbagliata come molte altre annunciate in precedenza.

Nel 1996, N. Robertson, P. Sanders, P. Seymour e R. Thomas diedero una nuova dimostrazione, basata sulle stesse idee di quella di Appell e Haken ma più efficiente, in quanto richiedeva l'analisi di "sole" 633 configurazioni. Ancora una volta, però, risultò impossibile verificare con carta e penna tutti i passaggi, e si dovette ricorrere al computer [RSST97].

Infine, nel 2005, B. Werner and G. Gonthier hanno implementato la dimostrazione del Teorema dei Quattro Colori nel linguaggio di programmazione (o, meglio, "theorem proving software") Coq, verificando la validità di ciascuno dei passi che la compongono [Gon08].

Riferimenti:

https://en.wikipedia.org/wiki/Four_color_theorem

http://mathworld.wolfram.com/Four-ColorTheorem.html

[AH77]
K. Appel; W. Haken: Solution of the Four Color Map Problem, Scientific American, 237 (4), pp. 108–121 (1977)
[Gard3] M. Gardner: Enigmi e giochi matematici, vol 3.
[Gon08] G. Gonthier: Formal Proof—The Four-Color Theorem, Notices of the American Mathematical Society 55 (11), pp. 1382-1393 (2008).
[H1890] P. J. Heawood: Map-Colour Theorem, Quarterly Journal of Mathematics 24, 332–338 (1890).
[K1879] A. B. Kempe (1879): On the Geographical Problem of the Four Colours, American Journal of Mathematics  2 (3): 193–220.
[RSST97] N. Robertson; D. Sanders; P. Seymour; R. Thomas: The Four-Colour Theorem, J. Combin. Theory Ser. B 70 (1), pp. 2–44 (1977)doi:10.1006/jctb.1997.1750,

10 marzo 2018

Harald Bohr: teoria dei numeri e nazionale di calcio

Harald Bohr (Copenhagen, 1887 - Gentofte, 1951) era il fratello minore del fisico teorico Niels Bohr, Premio Nobel 1922 per i suoi fondamentali contributi alla Meccanica Quantistica.

Anche se meno conosciuto rispetto al celeberrimo fratello, Harald ebbe una carriera scientifica di tutto rispetto. Infatti fu un famoso matematico, professore all'Università di Copenhagen e noto per le sue ricerche in Teoria Analitica dei Numeri (funzioni quasi-periodiche, distribuzione degli zeri della funzione zeta di Riemann), che portarono a collaborazioni con mostri sacri del campo come E. Landau e G. Hardy. Uno dei suoi risultati più famosi è il
Teorema di Bohr-Mullerup: La funzione Gamma di Eulero può essere caratterizzata come l'unica funzione analitica $f$ definita su $x>0$ e avente le seguenti proprietà:
$\bullet$  $f(1)=1$
$\bullet$ $f(x+1)=xf(x)$
$\bullet$ $f$ è logaritmicamente convessa (cioè, $\log(f(x))$ è convessa).
Un altro suo importante contributo è il Teorema di Bohr-Landau, una versione debole dell'Ipotesi di Riemann che afferma che "quasi tutti" gli zeri della funzione Zeta sono contenuti in una piccola striscia verticale centrata sulla retta critica $\mathrm{Re}(z)=1/2$.

Ciò che rende peculiare la carriera di H. Bohr è tuttavia il fatto che è stato l'unico matematico professionista a vincere una medaglia alle Olimpiadi come membro della nazionale di calcio del suo paese. Infatti Bohr era un eccellente attaccante, che debuttò in prima divisione danese nel 1903, a soli 16 anni (per un breve periodo giocò insieme al fratello Niels, che era un buon portiere). Nell'era di Sky e del calcio miliardario è una cosa impensabile, ma all'epoca si potevano ottenere risultati sportivi di rilievo limitandosi a giocare a pallone nel proprio tempo libero.

Nel 1908, venne selezionato per la nazionale olimpica che doveva partecipare ai Giochi di Londra dello stesso anno. In semifinale la Danimarca battè la Francia per 17-1, punteggio che costituisce ancora oggi un record olimpico. In finale la Danimarca perse 2-0 con l'Inghilterra, ottenendo quindi la medaglia d'argento.

L'ultima partita giocata da Bohr in nazionale fu nel 1910. Nello stesso anno discusse la sua tesi di dottorato: le cronache dell'epoca narrano che la sua popolarità come calciatore era tale che in aula si contavano più tifosi che matematici.

Oltre che come matematico e atleta, H. Bohr si distinse anche per il suo impegno a favore di diritti umani. Egli stesso di origine ebraica da parte di madre, fu profondamente disgustato dalle politiche antisemite del regime hitleriano e si adoperò per aiutare i matematici ebrei tedeschi a fuggire dalla Germania. Nel 1934 uscì un articolo a sua firma, pubblicato sul giornale danese Berlingske Aften, che criticava le posizioni filo-naziste del matematico L. Bieberbach.

H. Bohr univa a grandi qualità scientifiche notevoli capacità didattiche, che lo rendevano molto amato dai suoi studenti. Ancora oggi, in suo onore, il premio annuale per l'eccellenza nell'insegnamento attribuito dall'Università di Copenhagen è chiamato "The Harald".

Ulteriori particolari sulla vita e l'opera di Bohr si possono trovare nella sua biografia sull'archivio MacTutor.

Harald Bohr (a sinistra) col fratello Niels (a destra) in una foto giovanile.

05 marzo 2018

L'Ipotesi del Continuo

Nel 1874, G. Cantor aveva introdotto la sua celebre nozione di cardinalità, definendo due insiemi "equipotenti" quando è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca fra essi. Era l'inizio di un modo radicalmente nuovo di pensare l'infinito, che avrebbe rivoluzionato i fondamenti della Matematica.

Due insiemi finiti sono equipotenti se e solo se contengono lo stesso numero di elementi, in particolare nessun insieme finito è equipotente ad un suo sottoinsieme proprio. Per insiemi infiniti, invece, la cosa è molto più sottile. Ad esempio, è immediato verificare che l'insieme $\mathbb{N}$ dei naturali è equipotente al sottoinsieme $2 \mathbb{N}$ dei numeri pari, tramite la funzione che associa ad ogni numero il suo doppio. Non è inoltre difficile dimostrare che $\mathbb{N}$ è anche equipotente a $\mathbb{Q}_+$, l'insieme dei numeri razionali positivi: basta enumerare questi ultimi ordinandoli in base alla somma del numeratore e denominatore come segue: $$\frac{1}{1}, \, \frac{1}{2}, \, \frac{2}{1}, \, \frac{1}{3}, \, \frac{2}{2}, \, \frac{3}{1}, \, \frac{1}{4}, \,   \frac{2}{3}, \frac{3}{2}, \, \frac{4}{1}, \cdots$$ Una semplice modifica di questa procedura mostra inoltre che $\mathbb{N}$ è equipotente a $\mathbb{Q}$, l'insieme di tutti i numeri razionali.

Al contrario, non è possibile mettere in corrispondenza biunivoca $\mathbb{N}$ con $\mathbb{R}$, l'insieme dei numeri reali. Per dimostrare questo fatto, Cantor utilizzò un metodo di dimostrazione per assurdo noto come procedimento diagonale. L'idea è quella di associare ad ogni numero reale il suo sviluppo decimale: allora, se i reali potessero essere numerati in una lista, potremmo scegliere un numero reale $r$ la cui prima cifra decimale è diversa dalla prima cifra del primo numero della lista, la seconda cifra decimale è diversa dalla seconda cifra del secondo numero e così via. Ciò implica che $r$ non è contenuto nella lista, contraddizione.

La domanda che ora sorge naturale, e che è il contenuto del primo problema presentato da D. Hilbert al congresso di Parigi del 1900, è la seguente:
Esiste un insieme la cui cardinalità sia strettamente compresa fra quella di $\mathbb{N}$ e quella di $\mathbb{R}$, cioè fra il "numerabile" e il "continuo"?
Il problema (o meglio la congettura che tale insieme non esistesse) divenne noto come Ipotesi del Continuo, e si guadagnò subito lo status di fondamentale questione aperta della Teoria degli Insiemi. Lo stesso Cantor comprese la sua importanza e vi lavorò a lungo, senza risultati.

La prima risposta parziale venne ottenuta nel 1940 da K. Gödel, il logico viennese che sette anni prima aveva stupito la comunità matematica con i suoi celebri Teoremi di Incompletezza. Egli dimostrò che, restringendosi ad una particolare classe di insiemi noti come "insiemi costruibili", si ottiene una teoria che verifica gli assiomi di Zermelo-Fraenkel e l'Assioma di Scelta (ZFC) e nella quale è anche valida l'Ipotesi del Continuo, deducendo che quest'ultima è consistente con ZFC. In altre parole, l'Ipotesi del Continuo non può essere confutata in ZFC, che è l'assiomatizzazione "standard" della teoria degli insiemi.

Il (difficile) passo successivo venne compiuto nel 1963 da P. Cohen. Quest'ultimo sviluppò una particolare tecnica dimostrativa, detta forcing, che permette di allargare la classe degli insiemi costruibili ad una classe più ampia, verificante ZFC ma non l'Ipotesi del Continuo. Come conseguenza, segue che
L'Ipotesi del Continuo non è dimostrabile in ZFC, e utilizzando il precedente risultato di Gödel si deduce quindi che essa è indecidibile in ZFC.


P. Cohen (fonte: Wikipedia)

Per questa sua spettacolare scoperta, Cohen ottenne la medaglia Fields al Congresso Internazionale di Mosca del 1966. Nel 2006, poco prima della sua morte, egli tenne una conferenza a Vienna in occasione dei cento anni dalla nascita di Gödel, nella quale descrisse la sua soluzione al problema del continuo. Il video della conferenza è disponibile online su YouTube.

Riferimenti:


https://en.wikipedia.org/wiki/Continuum_hypothesis


http://mathworld.wolfram.com/ContinuumHypothesis.html

P. J. Cohen: The Independence of the Continuum Hypothesis, Proc. Nat. Acad. Sci. USA. 50, 1143-1148, 1963.

K. Gödel: The Consistency of the Continuum-Hypothesis. Princeton, NJ: Princeton University Press, 1940.

P. Odifreddi: La matematica del Novecento. Einaudi, 2000

25 febbraio 2018

Il Postulato di Bertrand

Chebyshev said it, but I'll say it again: there's always a prime between $n$ and $2n.$
(N. J. Fine)

Nel 1845, J. Bertrand propose, verificandola sperimentalmente fino al valore $n=3000000$, la seguente congettura, che da allora divenne nota come
Postulato di Bertrand. Dato un numero naturale $n >1$, esiste sempre un numero primo $p$ tale che $n < p <  2n$.
Un immediato corollario è che il gap tra un numero primo e il successivo è minore del doppio del primo stesso; in altre parole, se $\{p_n\}$ indica la successione dei primi, si ha $p_{n+1} < 2p_n$. Un'altra interessante conseguenza è che la successione $\mathbb{P}$ formata da 1 e dai numeri primi è una "successione completa", nel senso che ogni numero naturale può scriversi come somma di elementi di $\mathbb{P}$, usando ogni elemento al più una sola volta.

Il Postulato di Bertrand può essere derivato dal Teorema dei Numeri Primi (TNP), osservando che, siccome $\log x$ è asintotico a $\log 2x$, allora il numero dei primi fra $1$ e $2n$ è asintoticamente il doppio del numero dei primi fra $1$ ed $n$, dunque il numero dei primi fra $n$ e $2n$ va asintoticamente come $2n/2 \log n=n/ \log n$, cioè vi sono in realtà molti più primi fra $n$ e $2n$ da quanto previsto dal Postulato. Tuttavia, quest'ultimo è un risultato molto meno difficile da dimostrare rispetto a TNP, e inoltre ha il suo interesse storico in quanto venne provato prima di esso. Il numero esatto di primi fra $n$ e $2n$ è tabulato nella successione OEIS A060715.

La prima dimostrazione del Postulato di Bertrand venne fornita nel 1852 da P. L. Chebyshev (la prima dimostrazione di TNP è del 1896), utilizzando metodi di Teoria Analitica dei Numeri [5]. Da allora il risultato è anche conosciuto come Teorema di Bertrand-Chebyshev. La dimostrazione di Chebyshev venne successivamente semplificata da S. Ramanujan, che fornì un argomento di una pagina basato su alcune proprietà della funzione Gamma, vedi [3].


P. L. Chebyshev (fonte: Wikipedia)

Nel 1932, nel suo primo articolo pubblicato (all'età di 19 anni) P. Erdős diede la prima dimostrazione elementare del Postulato di Bertrand. Qui "elementare" va inteso nel senso della Teoria dei Numeri, dove il termine non vuol dire "semplice", ma piuttosto "che non utilizza strumenti al di là dell'aritmetica".

Di fatto, la dimostrazione di Erdős  è piuttosto sofisticata, e si basa su una stima accurata dell'esponente con cui un primo $p$ divide il coefficiente binomiale $\binom{2n}{n}$. Tale stima permette di mostrare che, se non esistessero primi fra $n$ e $2n$, allora tale coefficiente crescerebbe asintoticamente meno di quanto atteso, giungendo ad una contraddizione per $n>4000$.

I dettagli possono essere trovati in [2] e nel bel libro [4], che raccoglie una serie di dimostrazioni brevi e particolarmente eleganti, nello stile amato da Erdős. Quest'ultimo pensava infatti che esistesse un Libro nel quale Dio aveva raccolto le dimostrazioni più belle, e che fosse compito dei matematici (ri)scoprirle. In realtà Erdős non era religioso, e a chi gli chiedeva se credesse in Dio soleva rispondere "You don't have to believe in God, but you should believe in The Book."


P. Erdős (fonte: Wikipedia) 

Il paradosso di Bertrand è stato nel corso del tempo generalizzato in varie direzioni. Ad esempio, oggi si sa che esiste sempre un primo fra $2n$ e $3n$ (M. El Bachraoui, 2006) e che esiste sempre un primo fra $3n$ e $4n$ (D. Hanson, 1973). Inoltre, è anche noto che quando $n$ tende all'infinito anche il numero di primi fra $3n$ e $4n$ tende all'infinito (A. Loo, 2011).

Un problema collegato è quello di determinare il minimo esponente $r$ tale che esista sempre un primo fra $n$ e $n+O(n^r)$, per $n$ sufficientemente grande. Il Postulato di Bertrand implica che $r$ è al più $1$, e il miglior risultato oggi disponibile è $r \leq 6/11$ (Lou-Yao, 1992).

E' interessante notare che problemi in apparenza simili al Postulato di Bertrand sono ancora oggi (2018) irrisolti. Ad esempio, non è noto se esista sempre un numero primo fra $n^2$ e $(n+1)^2$; si pensa che la risposta sia affermativa, e questa è nota come congettura di Legendre.

Riferimenti:

[1]
https://en.wikipedia.org/wiki/Bertrand%27s_postulate
[2] https://en.wikipedia.org/wi…/Proof_of_Bertrand%27s_postulate
[3] http://mathworld.wolfram.com/BertrandsPostulate.html
[4] M. Aigner, G. M. Ziegler, K. H. Hofmann: Proofs from THE BOOK, Fourth edition, Springer, 2009. ISBN 978-3-642-00855-9.
[5] P. L. Chebychev. Mémoire sur les nombres premiers. Journal de mathématiques pures et appliquées, Sér. 1, 366-390 (1852). (Proof of the postulate: 371-382)
[6] S. Ramanujan "A Proof of Bertrand's Postulate." J. Indian Math. Soc. 11, 181-182 (1919).


17 febbraio 2018

Il Problema di Burnside

Un gruppo $G$ si dice "periodico" se ogni elemento di $G$ ha ordine finito, cioè se per ogni $g \in G$ esiste $n=n(g)$ tale che $g^n=1$. Chiaramente ogni gruppo finito è periodico, ma il viceversa non è vero: un controesempio è il gruppo di Prüfer $\mathbb{Z}(p^{\infty})$, ossia il sottogruppo di $\mathbb{C}^{\ast}$ formato da tutte le radici $n$-esime dell'unità, al variare di $n \in \mathbb{N}$.

È facile vedere che il gruppo di Prüfer non può essere finitamente generato. Nel 1902, W. Burnside pose la seguente domanda, che era destinata a diventare uno dei problemi più importanti e fecondi della Teoria dei Gruppi:

Problema generale di Burnside. Sia $G$ un gruppo finitamente generato e periodico. È vero che $G$ è finito?
La risposta risultò essere negativa: infatti, nel 1964 Golod e Shafarevich costruirono un controesempio, ossia un gruppo infinito, finitamente generato e periodico. Più precisamente, essi dimostrarono che per ogni primo $p$ esiste un gruppo infinito con tre generatori in cui ogni elemento ha ordine una potenza di $p$. Tuttavia, in tale controesempio l'ordine di $g \in G$ non può essere uniformemente limitato.

Il controesempio descritto sopra portò a considerare una versione più debole del problema, in cui l'ordine di $g \in G$ è limitato da una costante fissata $n$, ossia $g^n=1$ con $n$ indipendente da $g$. Un tale gruppo è detto "gruppo di esponente $n$". Chiaramente, avere esponente finito implica essere periodico, ma il viceversa non è vero (il gruppo di Prüfer o quelli di Golod-Shafarevich forniscono controesempi). Si può dunque enunciare il
Problema di Burnside I. Sia $G$ un gruppo finitamente generato e di esponente finito. È vero che $G$ è finito?
Questo problema può essere riformulato in modo da considerare una particolare classe di gruppi finitamente generati, i cosiddetti gruppi di Burnside. Se $F_r$ è il gruppo libero su $r$ generatori e $n$ è un numero naturale fissato, definiamo il gruppo di Burnside $B(r, \, n)$ come il quoziente di $F_r$ per le infinite relazioni $\{x^n=1, \, x \in  F_r\}$.

È un esercizio standard di teoria dei gruppi verificare che ogni gruppo con $r$ generatori ed esponente $n$ è un'immagine omomorfa di $B(r, \ n)$, per cui possiamo riformulare il nostro problema come segue:
Problema di Burnside II. Per quali coppie $(r, \, n)$ il gruppo di Burnside $B(r, \, n)$ è finito?
La risposta generale a questo problema non è nota. Nel suo lavoro originale, Burnside notò che $B(1,\, n)$ è il gruppo ciclico di ordine $n$, mentre $B(r, \, 2)$ è il prodotto di $r$ copie di $\mathbb{Z}_2$, quindi in entrambi i casi si ottengono gruppi finiti. Più avanti, venne dimostrato che $B(r, \, 3)$, $B(r, \, 4)$ e $B(r, \, 6)$ sono gruppi finiti per ogni valore di $r$. Ad esempio, $B(r, \,3)$  è isomorfo al gruppo di Heisenberg sul campo con tre elementi, in particolare ha ordine $27$.

Si noti che al momento (2018) non si sa se $B(2, \, 5)$ sia un gruppo finito.

I primi controesempi al Problema di Burnside I vennero forniti da Novikov e Adian nel 1968: essi mostrarono che, per $n$ dispari e maggiore di $4381$, esistono gruppi di Burnside infiniti. Il bound sull'esponente venne poi abbassato da Adian a $665$. Per quanto riguarda il caso di esponente pari, che risultò notevolmente più difficile da trattare, i primi controesempi vennero forniti da S. V. Ivanov nel 1992: egli dimostrò che, per ogni $r >1$ e $n> 2^48$ e divisibile per $2^9$, il gruppo $B(r,\, n)$ è infinito.

Una importante variante del Problema di Burnside è il cosiddetto
Problema di Burnside ristretto. Sia $G$ un gruppo finito con $r$ generatori ed esponente $n$ (ad esempio, un gruppo finito della forma $B(r, \, n)$). È vero che l'ordine di $G$ può essere limitato da una costante che dipende solo da $r, \, n$?
In questo caso la risposta è affermativa, come dimostrato da E. Zelmanov nel 1991. Per questo suo importante risultato, a Zelmanov venne assegnata la medaglia Fields nel 1994.


Riferimenti:

[1]
https://en.wikipedia.org/wiki/Burnside_problem

[2]
http://www-history.mcs.st-and.ac.uk/H…/Burnside_problem.html

[3]
http://mathworld.wolfram.com/BurnsideProblem.html

03 febbraio 2018

Il Teorema della Base di Hilbert

The theory of invariants came into existence about the middle of the nineteenth century somewhat like Minerva: a grown-up virgin, mailed in the shining armor of algebra, she sprang forth from Cayley's Jovian head.
(H. Weyl)

Uno dei campi di ricerca matematica più attivi alla fine dell'800 era la cosiddetta Teoria degli Invarianti, creata da A. Cayley con il suo seminale lavoro "On the Theory of Linear Transformations" (1845).

In termini moderni, il problema può essere enunciato come segue. Si consideri uno spazio vettoriale $V$ di dimensione finita $n$ su un campo $\mathbb{K}$, e sia $S^r(V)$ la parte in grado $r$ della sua algebra simmetrica. Considerata l'azione naturale del gruppo $\mathsf{SL}(V)$, si vogliono determinare gli elementi di $S^r(V)$ che sono invarianti per tale azione.

Cayley si limitava al caso $V=\mathbb{C}[x_1,\ldots ,x_n]$, per cui $S^r(V)$ era dato dai polinomi omogenei di grado $r$ a coefficienti complessi in $n$ indeterminate, e considerava la sottoalgebra dei polinomi che erano invarianti per l'azione naturale di $\mathsf{SL}_n(\mathbb{C})$. Nella sua terminologia, egli cercava "gli invarianti delle forme $n$-arie di grado $r$". Il primo caso da trattare era ovviamente quello delle forme binarie, ossia dei polinomi omogenei di grado $r$ in $2$ variabili.

Il "re della teoria degli invarianti" era da tutti considerato P. Gordan, che nel 1868 aveva dimostrato, per mezzo di un complesso argomento computazionale, che l'algebra degli invarianti per le forme binarie (di ogni grado) è finitamente generata. I tentativi di Gordan di adattare la sua dimostrazione alle forme con più di due variabili, però, fallirono a causa della enorme complessità dei calcoli da effettuare.

La svolta arrivò 20 anni dopo, nel 1890, quando il giovane D. Hilbert stupì la comunità matematica con l'articolo [Hilb90], nel quale dimostrava il celebre
Teorema di Finitezza di Hilbert. L'algebra degli invarianti delle forme $n$-arie di grado $r$ è finitamente generata per ogni valore di $n, \, r$. 
La dimostrazione di Hilbert giunse come un fulmine a ciel sereno, non solo per la potenza del risultato ma soprattutto per la tecnica utilizzata. Fino ad allora, infatti, tutti gli sforzi per provare la finita generazione degli invarianti erano rivolti alla determinazione di una base esplicita caso per caso. Hilbert, invece, "tagliò il nodo gordiano" dando una dimostrazione esistenziale e non costruttiva, che risolveva tutti gli infiniti casi in un colpo solo.

Il suo argomento si basava su un risultato molto generale e di indipendente interesse, e la cui dimostrazione originale (per assurdo) è sostanzialmente la stessa riportata nei moderni testi di Algebra. Si tratta del celebre
Teorema della Base di Hilbert. Se $\mathbb{K}$ è un campo, ogni ideale di $\mathbb{K}[x_1, \ldots , x_n]$ è finitamente generato.
L'approccio di Hilbert al problema originale fu di applicare il suo Teorema di Finitezza all'ideale $J$ di $\mathbb{C}[x_1, \ldots, x_n]$ generato dai polinomi invarianti di grado positivo, deducendo che deve esistere un insieme finito di invarianti che genera $J$. Dopodiché, utilizzando l'operatore che oggi è chiamato "proiettore di Reynolds", concludeva che questo insieme finito di generatori di $J$ (come ideale) genera di fatto l'intero sottoanello degli invarianti polinomiali.

All'inizio non tutti compresero la portata rivoluzionaria delle argomentazioni di Hilbert. Secondo quanto narrato in [R70],  sembra che lo stesso Gordan si trovò a disagio nei loro confronti, giungendo ad affermare

Das ist nicht Mathematik. Das ist Theologie

(Questa non è matematica. Questa è teologia).

Più tardi, tuttavia, cambiò idea, anche perché nel frattempo Hilbert aveva fornito [Hilb93] un approccio costruttivo al suo Teorema della Base. Gordan giunse anche a semplificare uno dei passaggi nella dimostrazione hilbertiana (infatti, secondo alcuni, il suo paragone  con la teologia non era tanto critico, quanto sottilmente ironico).

Chi capì subito la potenza dei nuovi metodi fu invece F. Klein, secondo il quale il lavoro di Hilbert sugli invarianti era l'articolo più importante mai pubblicato fino ad allora su Mathematische Annalen. Da quel momento, Klein si adoperò in modo che Hilbert ottenesse una cattedra a Gottinga, cosa che avvenne nel 1895.

Dopo questo grande successo, Hilbert cambiò settore di ricerca, dedicandosi alla Teoria dei Numeri. A suo parere, infatti, la teoria degli invarianti era ormai morta. Effettivamente, l'argomento smise di essere soggetto di ricerca per quasi un secolo, e per trovare qualcuno che lo riportasse in vita bisognerà attendere gli anni '60 del '900 con D. Mumford e la sua Geometric Invariant Theory. Ma questa è un'altra storia.


Riferimenti:

[Hilb90] D. Hilbert: Ueber die Theorie der algebraischen Formen, Math. Ann. 36 (1890), 473–534.
[Hilb93] D. Hilbert: Ueber die vollen Invariantensysteme, Math. Ann. 42 (1893) pp. 313–373.
[R70] C. Reid: Hilbert, Springer (1970).